Il lavoro del designer di prodotto

 

Presso Ipercubo design studio con sede nella città di Napoli, sarà possibile trovare professionisti del settore del design industriale per la realizzazione di qualsiasi prodotto in grado di soddisfare esigenze tecniche ed estetiche. Il lavoro del designer industriale è estremamente complesso e richiede una vasta gamma di competenza ed esperienza per riuscire a unire esigenze tecniche, qualità costruttiva e l’estetica accattivante. Ipercubo design studio Napoli si occupa della realizzazione di qualsiasi tipologia di prodotto, assicurando la massima qualità. Se state cercando designer industriali con esperienza, Ipercubo design studio (Napoli) e sicuramente il posto fatto per voi. Ma in sostanza, che cos’è un designer industriale o di prodotti? Il designer di prodotti è un professionista altamente specializzato che progetta oggetti di qualsiasi genere, che si dimostrino non solo belli e accattivanti dal punto vista estetico, ma anche funzionali. Il designer di prodotti tiene in considerazione quelle che sono le esigenze dal punto di vista tecnico e i desideri o gusti estetici dell’utenza per poi realizzare un prodotto che verrà sottoposto, nella maggior parte dei casi, a una produzione in serie (anche se nella vasta gamma di prodotti disegnati da progettisti non sono da escludere le piccole serie o le serie in collaborazione con artigiani). Il designer è colui che mette in collegamento il senso estetico che l’utenza ricerca nonché i bisogni del mercato e l’utilità tecnologica che quel determinato prodotto deve possedere. Più nel dettaglio un designer di prodotto utilizza le proprie abilità e conoscenze per creare un oggetto di qualsiasi genere tra cui: mobili, sedie, tavoli, lampade, mezzi di trasporto, scarpe, giochi, accessori e qualsiasi altro prodotto che viene realizzato a livello industriale. Qualsiasi sia il prodotto su cui il designer sta lavorando, questo adotterà un metodo di progettazione che mette insieme il contesto, l’utilità del prodotto e le esigenze dell’utenza unite al senso estetico e alle mode del mercato. In altre parole, ogni prodotto che viene progettato da un designer, al di là del settore merceologico al quale appartiene, viene pensato, progettato e prototipato seguendo il medesimo iter progettuale. Il designer svolge una ricerca approfondita su quello che è lo scopo finale del prodotto su cui deve lavorare, analizza i problemi e le necessità del target a cui quel determinato progetto fa riferimento e trova delle soluzioni che si dimostrino innovative, funzionali e esteticamente piacevoli per l’occhio dell’utenza. È evidente come per realizzare un prodotto che possa avere successo questo deve essere, non solo utile nel risolvere i problemi e soddisfare le esigenze del cliente, ma deve dimostrarsi anche esteticamente piacevole. Infine se si tratta di un utensile o dispositivo per l’uso personale, il designer deve tenere conto dell’ergonomia del prodotto e fare i relativi test di usabilità sfruttando le sue capacità e competenze nella user experience design. La realizzazione di un progetto industriale si divide in più fasi infatti, quando il designer di prodotti lavora su commissione, inizia a realizzare il proprio progetto partendo dalle richieste del cliente, dalle sue aspettative e dai risultati che l’azienda si aspetta di ottenere. Queste informazioni non sono altro se non la base o le fondamenta da cui far partire il processo creativo. Il professionista che si occupa di design del prodotto svolgerà numerose ricerche sull’identità del brand, sul valore della azienda e sulla fascia di pubblico a cui essa si riferisce. Dopo la fase di analisi di mercato e di benchmark (quindi dopo aver analizzato cosa offre la concorrenza e quali potrebbero essere i vantaggi di un nuovo prodotto nello stesso segmento di mercato), che nella maggior parte dei casi culmina con la predisposizione di una presentazione per il clienti completa di moodboard, infografiche e immagini sia tecniche che evocative, inizia il processo di ideazione del prodotto durante la quale si cominciano a scandagliare alcuni dei primi concetti realizzati dall’Art director e alcune idee elaborate dal team creativo. Il designer di prodotti andrà a realizzare dei primi schizzi del progetto su carta o al computer, in modo tale da avere una prima rappresentazione visiva della propria idea. Il designer utilizzerà diversi programmi grafici come ad esempio software Cad per la progettazione di un primo modello in 2D o in 3D. Alcuni esempi dei maggiori software con i quali lavora Ipercubo design studio Napoli sono: Photoshop, Illustrator del pacchetto Adobe (principalmente utilizzati per la progettazione di contenuti grafici di alta qualità), Autocad e Solidworks (principalmente utilizzati per la modellazione per solidi o superfici della idea progettuale di partenza). Una volta realizzato il concept del modello, il designer avrà il compito di scegliere i materiali e le tecnologie da adoperare per la produzione dei diversi prototipi di progetto da dover sottoporre a giudizio dell’azienda o del committente. Una volta mostrato il prototipo al proprio committente attraverso l’utilizzo d’immagini del prodotto sotto forma di rendering o modelli prodotti tramite la tecnologia della stampa 3d (questa è una tecnica molto ampia che presenta diverse possibilità al designer di prodotto industriale), il designer sfrutterà i feedback raccolti per applicare eventuali modifiche al proprio progetto. Una cosa fondamentale di cui il designer del prodotto deve assicurarsi è che la propria idea oltre che originale e rispondente alle richieste del cliente sia effettivamente realizzabile dal punto vista industriale e pratico-tecnologico. Bisogna assicurarsi che l’idea sia realizzabile a livello tecnologico con i macchinari a disposizione, ma anche che il prodotto sia sostenibile da un punto di vista economico senza che la sua produzione raggiunga cifre eccessive che lo renderebbero difficoltoso da piazzare sul mercato. Parallelamente alla sostenibilità economica, specialmente nell’epoca in cui viviamo, caratterizzata da una crescente attenzione verso la questione climatica, un buon designer di prodotto dovrebbe tenere presente anche la sostenibilità ambientale del proprio prodotto guardando al suo ciclo di vita e ai materiali e tecnologie necessari per la sua realizzazione. Un buon designer di prodotto non può tralasciare niente: deve avere una visione a 360° sulla contesto progettuale. Proprio per questo motivo il designer sottopone all’attenzione del proprio team di ingegneri e tecnici il prototipo, in modo tale che coloro che si occuperanno di realizzarlo dal punto di vista pratico, possono valutare e verificare la fattibilità o meno a livello industriale del prototipo ed eventualmente suggerire alcuni miglioramenti. Una volta fatto ciò vengano eliminate le eventuali criticità del progetto e viene prodotta una relazione di assesment finale con immagini e dati tecnici. Questa relazione finale prima di procedere alla produzione è molto importante per il designer di prodotto perché è un momento cruciale e potrebbe influenzare il successo di quel prodotto.  Il designer di prodotto deve essere quindi pronto a modificare tutto o quasi tutto il progetto in funzione delle esigenze produttive, in modo tale che esso possa essere ingegnerizzato con più facilità e costi economici ed ambientali minori. Una volta ottenuta l’approvazione del progetto il designer avrà il compito di realizzare i primi prototipi ed effettuare i primi test. È essenziale effettuare dei test sul prototipo realizzato in modo d’avere una certa sicurezza sulla sua qualità costruttiva prima che arrivi sul mercato. È consigliato in questa fase effettuare test di usabilità sul prodotto oltre che test di funzionamento. In questo modo il designer di prodotto potrà risolvere tutti gli eventuali problemi prima di dare l’ok alla produzione industriale. Se hai bisogno dell’assistenza tecnica ed esperienza di questi grandi professionisti della progettazione, Ipercubo design studio, con sede a Napoli entra in gioco mettendoti in contatto con i più abili designer del prodotto in grado di soddisfare appieno le tue esigenze. In questo studio di design potrai confrontarti con persone creative e competenti in diversi ambiti: design del prodotto, ingegnerizzazione del prodotto, grafica, protipazione, modellazione CAD CAM, presentazione del prodotto e tanto altro.Lo studio di design e ingegnerizzazione del prodotto si trova nella zona industriale di Napoli Nord ed è facilmente raggiungibile in auto, vicino all’aeroporto di Napoli Capodichino e alla stazione ferroviaria.Se stai pensando di trasformare la tua idea di prodotto in realtà sei capitato sul sito giusto: Ipercubo design studio Napoli possiede tutto il know-how di cui la tua azienda ha bisogno. I designer che fanno parte del team si sono formati in Italia ma hanno anche avuto la possibilità di maturare esperienze all’estero. Hanno lavorato in prestigiosi studi di design italiano per poi portare la loro esperienza in uno studio di progettazione con sede nella città di Napoli.Ipercubo design studio Napoli nel tempo ha collezionato diverse esperienze nell’ambito dell’ingegnerizzazione dei più diversi prodotti ed è per questo motivo che i suoi designer possono oggi vantare conoscenze e competenze nella gestione della catena della progettazione del prodotto con diverse tecnologie.Alcuni esempi potrebbero essere la progettazione per lavorazioni di taglio laser e piegatura lamiera: a Napoli c’è una lunga tradizione di design, progettazione e produzione di macchine da caffè ed Ipercubo ha firmato molte macchine top di gamma che potete vedere nelle abitazioni così come nei locali pubblici.Chissà se prendendo un caffè non vi sia già capitato di assaggiarne uno prodotto con una macchina firmata Ipercubo design studio Napoli.Ma ecco altri esempi: progettazione di elementi da produrre in larga scala tramite la tecnologia dello stampaggio a iniezione. Questo costituisce un altro esempio delle capacità e competenze che il cliente può trovare in Ipercubo design studio Napoli.La progettazione di arredo su misura, la progettazione di elementi di illuminotecnica, dispositivi elettronici per l’uso quotidiano, oggetti per la cura personale, accessori, wereable devices e tanto altro.Allo stesso tempo Ipercubo design studio Napoli ha potuto accumulare molte referenze, segno della soddisfazione dei propri clienti sul territorio regionale e nazionale.Lo studio lavora anche su progetti in sinergia con l’università di Napoli ed è dunque aperto a partecipare a progetti di ricerca oltre che di pure costruzione industriale.

Auto del futuro:  Kinecar, il primo nodo dell’Internet of Cars

La scaleup napoletana Kineton lancerà entro il 2021 una minicar innovativa, Kinecar: è destinata alla vendita, ma è anche un laboratorio di sistemi e servizi per la guida connessa e sicura. Ne parla il CTO Luigi Novella

di Luciana Maci

 

L’auto del futuro sarà “un ecosistema digitale che mette al centro l’Internet of Things”. Ne è convinto Luigi Novella, CTO dell’area innovazione di Kineton, scaleup napoletana specializzata in software. Uno scenario che conosce bene, perché l’azienda propone, tra le altre cose, soluzioni avanzate per l’automotive. Un settore che, solo qualche anno fa, era ritenuto un mercato maturo e che invece è stato tra i primi a sperimentare tecnologie, servizi e prodotti estremamente innovativi, dall’auto connessa a quella a guida autonoma. L’evoluzione, rapida e progressiva, ha finito per far incontrare i tradizionali protagonisti di questa industria con altre industrie un tempo ritenute lontanissime. E ha portato a trasformare radicalmente il concetto di auto: non più, e non soltanto, un mezzo per spostarsi da un luogo all’altro, ma un articolato sistema in grado di offrire una serie di strumenti e opportunità come immagazzinare i profili dei guidatori in modo da “conoscerli” a fondo, prevedere incidenti, consentire pagamenti da remoto e molto altro.

Un “ecosistema digitale”, appunto. Proprio a questo sta lavorando Kineton. Circa un anno e mezzo fa l’azienda guidata da Giovanni Fiengo ha registrato il marchio IoCars, che sta per Internet of Cars, e ora è in procinto di lanciare Kinecar: non un semplice veicolo, ma un vero e proprio “device su quattro ruote”.

“La spina dorsale di questo ecosistema digitale – spiega Luigi Novella – è una piattaforma basata su tecnologia cloud in grado di far comunicare macchina e utente. L’auto connessa scambia continuamente dati sia con l’utente sia con la piattaforma cloud per consentire al guidatore di usufruire di una serie di servizi: dallo streaming di contenuti multimediali (un film, un brano musicale) all’utilizzo degli assistenti vocali, dai pagamenti automatici alla consultazione della posta elettronica (quello che si chiama “portare l’ufficio nella vettura”). Non meno importante è la possibilità di condividere la propria auto: la tecnologia cloud consente di condividere la chiave del veicolo in maniera semplice e sicura. Inoltre, sempre grazie al cloud, è possibile monitorare lo stato del veicolo e fare manutenzione predittiva”.

Questo ed altro è “contenuto” nella Kinecar di Kineton: un quadriciclo pesante elettrico, in altre parole una minicar, pensata per i più giovani e per i professionisti, che di fatto, oltre a essere mezzo di trasporto, è una piattaforma di sperimentazione di servizi.

In un’arena già piuttosto competitiva, che vede tra i protagonisti Tesla, l’azienda di Elon Musk che ha rivoluzionato il mondo dell’auto ed è stata la prima a lanciare una piattaforma digitale, Kineton punta a fornire lo stesso tipo di servizi, ma con particolare attenzione alla sicurezza nella guida e all’interfaccia macchina-utente.

Il team di R&S, per esempio, sta sviluppando un sistema di machine learning per evitare di stressare il carico cognitivo nel conducente, cioè impedire che sia distratto dall’eccessiva varietà di strumenti a sua disposizione. La Kinecar è infatti dotata di sistemi avanzati di assistenza alla guida, ma soprattutto di un’interfaccia uomo-macchina in grado di capire, sulla base dell’apprendimento, come relazionarsi con il guidatore sulla base del suo grado di attenzione, oltre che delle condizioni ambientali. “Se c’è un imprevisto da segnalare con urgenza, ma il sistema ‘vede’ che chi è alla guida sta voltando la testa verso il finestrino (l’auto, lo ricordiamo, è sensorizzata e dotata di una camera interna), invece di accendere la spia sulla dashboard il sistema invierà l’informazione in automatico attraverso messaggi audio intensi” spiega il CTO di Kineton. È inoltre in grado di rilevare colpi di sonno e perdita di attenzione, e di provare a svegliare il conducente con bip acustici, ma persino con feedback tattili (per esempio vibrazioni dello sterzo). “Per individuare un eventuale colpo di sonno – prosegue il ricercatore – si costituisce un set di feature dal quale si va ad estrarre l’immagine del volto del conducente e dei suoi occhi, in modo da capire in quale percentuale l’occhio è aperto o chiuso”.

Tutto questo grazie alla human machine interface a cui Kineton sta lavorando da circa un anno. “Saremo tra i primi nel mondo a mostrare un dispositivo di questo genere” assicura Novella.

I modelli di business per la Kinecar

La società partenopea ha individuato due modelli di business per la sua Kinecar: uno che guarda alla minicar da poter vendere, l’altro che consiste nella possibilità di offrire a livello ingegneristico i servizi del prodotto stesso. Al momento esiste un prototipo marciante di Kinecar, in questi mesi la squadra è impegnata sulla parte software. L’obiettivo è lanciare il veicolo il prossimo anno: dalla prima miniserie di tre veicoli si dovrebbe passare a 10 e poi, nel 2022, andare a regime con la produzione di 500 pezzi all’anno.

Per quanto riguarda uno dei capitoli più innovativi dell’auto del futuro, la guida autonoma, Kineton si sta impegnando per implementare i sistemi avanzati di assistenza alla guida, da quelli anti-collisione alla fatigue detection.

La conferma del ruolo assunto da Kineton nel contesto nazionale arriva dalla sua partecipazione a uno dei progetti più interessanti del momento, il Borgo 4.0 proposto da Anfia, associazione nazionale dell’industria automotive, che punta a rendere il piccolo borgo irpino di Lioni, in provincia di Avellino, un luogo dove sperimentare in ambiente reale e in scala i nuovi modelli e le nuove tecnologie della mobilità del futuro. Nel progetto sono coinvolte 54 imprese, le 5 Università campane con i centri di ricerca pubblici e il CNR, in un piano complessivo di investimenti di oltre 76 milioni di euro.

Nel mondo dell’automotive la società produttrice della Kinecar porta un elemento che sta diventando sempre più determinante: il software. “La trasformazione digitale – conclude Luigi Novella – apre scenari nuovi e consente l’ingresso di nuovi protagonisti. Dato che non tutti i car maker sono riusciti ad adattarsi al cambiamento, ci potrebbe essere spazio per nuovi player. Software, vendor e fornitori di telco assumeranno un ruolo centrale. Non a caso, oltre a descrivere la macchina come un device su ruote, si sta cominciando a parlare di codice su ruote. Si stima che nel 2024 il 90% delle auto saranno connesse. È qualcosa di nuovo e chi fa software proverà ad occupare questo settore”.

 

 

https://www.economyup.it/automotive/auto-del-futuro-kinecar-il-primo-nodo-dellinternet-of-cars/

Strategie biologiche al servizio del design

autore: Carla Langella

 

Con la definizione “hybrid design” viene proposto un approccio progettuale che si propone di mutuare nella cultura del progetto la complessità insita nelle logiche, nei codici e nei principi del mondo biologico. Nell’hybrid design le qualità complesse tratte dal mondo biologico vengono trasferite al design di prodotti e servizi innovativi come una sorta di “nuovo codice genetico”.

Per raggiungere questo obbiettivo si fa riferimento alle più recenti conquiste delle scienze biologiche e alle correlate speculazioni teoriche con la volontà di superare la dimensione consueta dell’approdo a facili metafore estetiche e formali, e affrontando, piuttosto, un percorso rigoroso di matrice scientifica, basato su una specifica metodologia messa a punto e verificata attraverso ricerche teoriche e progettuali.

Le attuali conoscenze biologiche hanno svelato che non necessariamente i sistemi biologici funzionano in maniera “esatta”, piuttosto è la loro complessità che gli consente di sopravvivere al variare delle condizioni esterne e interne. Complessità che l’hybrid design si propone di mutuare attraverso il trasferimento delle strategie biologiche al design, per di-svelare nuovi scenari di sperimentazione concettuali e operativi.

I cicli della natura

Adottare nel design codici, principi e logiche tratte dalla biologia, significa non solo ispirarsi a come la natura realizza i suoi prodotti, ma soprattutto a come li sviluppa, li cresce e li mantiene in vita. In questo modo si ottiene un’evoluzione del paradigma progettuale bio-ispirato che non si basa più soltanto sull’interrogativo: “come la natura realizza i sistemi biologici?” ma aggiunge: “come la natura li cresce e li mantiene in vita?”.

Dalla risposta a tali domande possono essere tratti i principi mirati alla chiusura dei cicli delle risorse utili per il progetto e la realizzazione di artefatti compatibili con i cicli biologici che regolano la vita degli uomini e l’ambiente naturale in un’ottica zero emission cradle to cradle. Il concetto di ciclicità è infatti legato a quello di tempo biologico. I processi naturali avvengono in forma ciclica, i rifiuti di alcuni sistemi diventano risorse per altri. La durata dei materiali deve essere proporzionata alla durata della vita dei prodotti nei quali vengono utilizzati. Imparare a progettare dalla natura significa anche imparare ad applicare la ciclicità chiusa propria dei processi biologici.

Esiste una sostanziale differenza tra il modo di produrre degli uomini e della natura. L’uomo, nel realizzare i propri artefatti, prende le materie prime dalla natura e le trasforma ottenendo dei prodotti che, alla fine della loro vita utile, si tramutano in scarti, emissioni prevalentemente non utilizzabili che si accumulano nell’ambiente danneggiandolo. La natura, invece, preleva materie prime, le trasforma e vi realizza i suoi prodotti che crescono, si riproducono e alla fine della loro vita rientrano nei cicli biologici reintegrandoli. In natura tutto viene riusato o riciclato.

Secondo la metafora biologica utilizzata dal design bio-ispirato, ogni prodotto, o sistema di prodotti, può essere paragonato a un organismo in cui tutte le parti, pur avendo differenti cicli di vita, sono legate tra loro mediante relazioni complesse. Spesso i diversi componenti di un prodotto sono caratterizzati da durabilità diverse e differenti tempi di obsolescenza. La scelta dei materiali da utilizzare e, eventualmente, il progetto ad hoc di alcuni di essi deve, dunque, tener conto della necessità di prevedere per i diversi elementi tecnici differenti cicli di vita.

Nel prefigurare tali cicli è necessario dedicare la massima attenzione al loro impatto ambientale e alla loro durata, che deve essere compatibile con quella prevista, in relazione alle specificità dell’impiego. In particolare, è indispensabile valutare in anticipo le prestazioni ambientali di tutti i materiali e componenti nelle fasi che vengono successivamente alla dismissione, come riuso, riciclo ed eventuali nuovi cicli di vita.

L’attenzione alla ciclicità temporale dei materiali induce all’uso di materiali riciclabili, provenienti da materie prime rinnovabili o materiali biodegradabili e compostabili per prodotti che hanno cicli di vita molto brevi, come i sistemi di packaging o i cosiddetti prodotti “usa e getta”, come per esempio il “moscardino” progettato da Matteo Ragni e Giulio Iacchetti per Pandora Design. In questi casi la capacità del materiale di disperdersi nell’ambiente consente di evitare di aumentare il volume dei rifiuti solidi deposti.

Autonomia

Nel design il concetto di autonomia può essere interpretato e trasferito come autonomia dalle operazioni di manutenzione, pulizia, riparazione, sostituzione, qualità preziose perché consentono di evitare gli impatti ambientali ad esse legati. Dai sistemi biologici possono essere tratti principi mirati all’autonomia degli artefatti in tutto il loro ciclo di vita in termini energetici, ed alla chiusura dei cicli delle risorse. Il design ecologicamente sostenibile può imparare dalla natura, ad esempio, le strategie più adatte per utilizzare le fonti energetiche rinnovabili, per riciclare le risorse non rinnovabili, per riutilizzare i rifiuti, fino a giungere alle strategie più complesse come quelle basate sulle capacità di auto-monitoraggio e di autoriparazione.

Molti sistemi biologici sono in grado di modificare le proprie caratteristiche in funzione del mutare dei fattori esterni, in modo da sopravvivere a tali cambiamenti. È quello che avviene nei fenomeni di autoriparazione che possiedono diverse piante ed animali. Negli organismi viventi, ad esempio, il nascere di una lesione genera un meccanismo di auto-riparazione. Nel corpo umano, quando viene causata una ferita, immediatamente avviene un afflusso di liquidi in corrispondenza della parte del corpo interessata, che attivano un insieme di reazioni fisiologiche capaci di causare la chiusura della lesione. Utilizzando una strategia analoga, alcuni ricercatori del Beckman Institute for Advanced Science and Technology della University of Illinois , coordinati da Scott White, hanno sviluppato dei “self-healing polymers”, compositi polimerici in grado di auto-ripararsi (1), che potrebbero essere usati nel design di diversi tipi di prodotti al fine di evitare, quando si verifica una piccola lesione, la sostituzione della danneggiata o la dismissione dell’intero. In questi compositi vengono inglobate delle microcapsule che, quando il materiale subisce una lesione, si aprono e rilasciano una resina che polimerizza istantaneamente chiudendo la frattura nella matrice (2).

La ricerca nel campo dei nuovi materiali e l’evoluzione delle nuove tecnologie di produzione offrono sempre nuove opportunità in termini di autonomia energetica come le tecnologie fotovoltaiche in film sottili e flessibili, che offrono l’opportunità di rendere autonomi i dispositivi alimentati elettricamente integrandosi a tutte le forme e dimensioni.

Auto-organizzazione e adattamento

Il concetto di auto-organizzazione ha attraversato molte discipline dalle quali sono emerse diverse definizioni. Secondo i teorici della complessità, l’auto-organizzazione sembra essere uno dei principi più importanti nella capacità di evoluzione, poiché si traduce in capacità di generare strutture potenzialmente vincenti nella selezione naturale. I sistemi capaci di auto-organizzarsi spontaneamente aumentano le loro possibilità di evolvere ulteriormente. Le caratteristiche auto-organizzate sono anche quelle più facilmente ri-modellabili, dunque più flessibili. Gli organismi per sopravvivere al mutare delle condizioni, interne ed esterne, tendono a modificare se stessi e ad evolversi nel tempo, in modo da utilizzare le proprie risorse nella maniera più efficiente possibile. Il concetto di auto-organizzazione è stato trasferito in diversi ambiti disciplinari.

Nel design trasferire i concetti di auto-organizzazione e adattabilità agli artefatti significa intervenire, complessificandolo, sul rapporto tra essenza della materia e prestazioni. L’adattabilità di un prodotto può essere intesa, infatti, come capacità di modificare le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne, dunque potrebbe tradursi in flessibilità prestazionale o in multi-funzionalità. Il designer francese Mathieu Lehanneur, ha ottenuto la Carte Blanche VIA 2006 progettando la collezione Elements“, costituita da dispositivi per l’abitare, in grado auto-adattarsi dinamicamente, al variare delle condizioni esterne,per creare condizioni di confort. Oggetti che modificano le proprie prestazioni, in funzione di sollecitazioni provenienti dall’utenza o dall’ambiente.

Il concetto di auto-organizzazione è importante dal punto di vista della sostenibilità ambientale in termini di risparmio delle risorse materiali e energetiche. Un sistema è reso adattabile prevedendo i possibili cambiamenti ai quali si dovrà adeguare, anche se riguardano soltanto una parte di esso. In questo modo è possibile estendere di molto la vita utile di un prodotto. I prodotti del design devono essere, quindi, adattabili e aggiornabili al variare dello scenario tecnologico, dell’ambiente economico e delle condizioni esigenziali dell’utenza. Gli oggetti progettati e realizzati per essere flessibili, modulari e riconfigurabili sia dal punto di vista prestazionale che dimensionale ed estetico, sono destinati sicuramente a durare di più e, dunque, a poter essere usati per tempi più lunghi, ottenendo un considerevole vantaggio ambientale legato al risparmio protratto per un tempo più lungo delle risorse materiali ed energetiche, necessarie alla sua manutenzione o sostituzione.

Il principio principio ologrammatico

Il principio ologrammatico della complessità, sul quale si basano gli organismi viventi prevede che: non solo la parte è nel tutto, ma è anche il tutto che è incluso nella parte (3). La cellula, ad esempio, è parte dell’organismo, che contiene anche l’informazione genetica del tutto.

In base alla metafora biologica, gli artefatti possono essere interpretati come organismi, nei quali ogni parte, ogni elemento, partecipa ad una strategia progettuale globale estesa agli infiniti livelli che vanno dalla dimensione nanometrica a quella macrometrica.

L’hybrid design adotta una metafora biomimetica, secondo la quale nel progetto degli artefatti questi vengono interpretati come organismi, in cui ogni elemento, secondo il principio ologrammatico, a tutte le scale, da quella dei materiali fino a quella macroscopica, partecipano ad un comune concept globale. Nell’ambito del design per la sostenibilità, questo approccio può offrire una struttura metodologica nella quale le strategie sostenibili bio-ispirate vengono riflesse in tutte le dimensioni e in tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto, come una sorta di “codice genetico” in grado di conferire una coerenza di sistema per il progetto che si rivela particolarmente utile per ottenere il migliore risultato possibile in termini di minimizzazione dell’impatto ambientale.

Ridondanza e multifunzionalità

I sistemi biologici posseggono una qualità definita “ridondanza”, che consente loro di sopravvivere anche agli eventi più imprevisti e pericolosi, rispondendo ad essi con l’utilizzo di elementi o caratteristiche apparentemente “superflui”, la cui esistenza trova giustificazione solo quando si manifesta la necessità. Spesso le strategie progettuali orientate alla sostenibilità ambientale tendono alla minimizzazione. Il concetto di ridondanza sembra, dunque, in antitesi con questo tipo di approccio. Ma, in alcuni casi, la ridondanza costituisce una soluzione molto efficace per evitare sprechi di risorse. Ad esempio, l’uso di pellicole protettive applicate su superfici ad elevata deperibilità o molto fruite, come le pavimentazioni di luoghi con frequente passaggio, consentono di conservare per periodi molto lunghi componenti o parti di edifici che, altrimenti, richiederebbero continue sostituzioni e conseguenti ricadute ambientali.

La ridondanza può essere anche funzionale. In natura la maggior parte degli elementi sono multifunzionali poiché le condizioni ambientali cambiano di momento in momento e i sistemi biologici devono essere pronti a rispondere con una delle possibili funzioni. Alcuni insetti, ad esempio, hanno diverse coppie di zampe, ognuna delle quali compie una funzione diversa. La multifunzionalità è una tendenza ormai consolidata nel design contemporaneo, i ritmi di vita sempre più frenetici e il loro continuo cambiare impone che i prodotti di uso quotidiano siano trasformisti, mutanti, in grado di adattarsi ai cambiamenti di esigenze e di condizioni esterne.

Oggetti e componenti multifunzionali o ridondanti, dal punto di vista prestazionale, si possono facilmente adattare a diverse applicazioni e, dunque, sono in grado di ‘sopravvivere’ più a lungo.

Dispositivi che inglobano diverse funzioni come i vetri elettrocromici, che riuniscono in un unico oggetto i vetri e il sistema di schermatura solare, o i materiali elettroluminescenti e fotoluminescenti, che consentono di riunire in un unico sistema materico i diversi elementi necessari per realizzare una lampada come corpo illuminante, cavi elettrici, interruttori, sostegno, diffusori.

Integrare le funzioni in un unico prodotto significa risparmiare, in termini economici ed ambientali, le risorse materiali ed energetiche necessarie a realizzare i diversi prodotti sostituiti.

Dici Napoli e dici design. O meglio, “Design District”. Ecco in vincitori del nuovo e lanciatissimo concorso per progettisti partenopei


Autore: Helga Marsala

È solo alla prima edizione, ma si sta già imponendo come uno tra più vitali e interessanti appuntamenti italiani per il design. Il Napoli Design District”, premio destinato ai creativi napoletani, nasce da un’iniziativa dell’Associazione Culturale Interviù e riceve il sostegno di una sfilza di istituzioni locali: Regione Campania, Provincia di Napoli, I Municipalità del Comune di Napoli, Confartigianato e Unione degli Industriali. Una giuria internazionale – composta da Magali Moulinier, collaboratrice del Mudac di Losanna; Gennaro Polichetti, presidente dell’Ordine degli Architetti di Napoli; Patrizia Ranzo, docente di Disegno Industriale presso la Facoltà di Architettura di Napoli; Massimiliano Tonelli, direttore di Artribune – ha vagliato 94 lavori (di cui 6 fuori concorso), presentati da 67 partecipanti. Originale e vincente la formula, che prevedeva la presentazione di veri e propri prototipi, complementi d’arredo concepiti come pezzi unici o elementi di una piccola serie. Oggi, 18 marzo, arrivano i nomi dei vincitori, proclamati durante una cerimonia presso il Gran Caffè Gambrinus, il prestigioso caffè letterario di Piazza Trieste e Trento. Nomi che Artribune, ovviamente, vi comunica in tempo reale. Si aggiudica il primo premio Palmina Di Nardo con “Omaggio a Roger Penrose”, per la capacità di mantenere “un rapporto evocativo e contemporaneo con la tradizione”, dando vita a un oggetto che abita lo spazio e il tempo “senza rinunciare ad essere presente anche in un ‘altrove’ infinito”. Medaglia d’argento a “Kanyon” di Carlo Gattullo, “per l’essenzialità del ‘gesto’” e “per la ricerca sull’interazione tra la fisicità del contenuto e la determinazione della forma dell’oggetto”. Infine, terza classificata è Matilde Merciai con “Octable” , “per la ricerca sui materiali, l’uso della luce e delle ombre come elementi strutturali della composizione”.

Giovanni Fiengo (Kineton): come siamo arrivati a 18 milioni di fatturato in tre anni
Autore: Giovanni Iozzia

Startup Fondata nel 2017 a Napoli, Kineton è già una scaleup: da 0 a 250 dipendenti e quasi 20milioni di ricavi. Il founder e CEO Giovanni Fiengo racconta: “Siamo una società di ingegneria che fa ricerca e la trasferisce ai clienti”. L’attenzione ai dipendenti, l’invenzione dell’Internet of Cars e il lancio di una microcar nel 2021

Giovanni Fiengo, founder e CEO di Kineton
“Da napoletano mi sono tolto una doppia soddisfazione: quando vengono qui a fare cose che prima facevano a Milano, trovano un’azienda che non si aspettavano. Ma scoprono anche una città e la sua bellezza”. Giovanni Fiengo, CEO di Kineton, ingegnere, 47 anni e cinque figli, ha addosso l’energia del Vesuvio e l’orgoglio di chi ha dimostrato che si può fare innovazione e imprenditoria hi-tech anche al Sud. E con ottimi risultati: la startup che ha fondato nel 2017 con un gruppo di amici-colleghi nel giro di tre anni si è conquistata lo status di scaleup. Linkedin l’ha inserita fra le 10 startup italiane più resistenti al Covid e a metà ottobre ha vinto il premio Eccellenza d’Impresa promosso da GEA con l’Harvard Business Review.

Kineton sviluppa software per il settore automotive e media, tv in particolare: le più importanti case automobilistiche e i grandi broadcaster sono già tra i suoi clienti. “Ma non è una software house”, tiene a precisare Fiengo, che insegna Controlli Automatici all’Università del Sannio, a Benevento. Tra una lezione e un caffè è nata l’idea di Kineton, che già nel nome contiene il concetto di movimento, velocità, successo. A EconomyUp Fiengo racconta i primi tre anni di Kineton e i sogni che stanno alimentando il futuro prossimo della società.

Marzo 2017, nasce Kineton. Con quale idea?
Portare entusiasmo in un mondo dove spesso manca

Fiengo, che cosa vuol dire? Suona un po’ retorico….
Io insegno all’università del Sannio, controlli automatici. Ho fatto il mio primo figlio a 28 anni e, arrivato al quarto, ho cominciato a fare l’imprenditore. Forse perché lo stipendio da professore non mi bastava più per mantenere la famiglia… (e mentre lo dice, ride, ndr.). Ho commesso i primi errori, com’è normale. Poi tre anni fa mi sono ritrovato attorno a un tavolo con un gruppo di professionisti e amici proprio con questa idea: faremo la differenza con il nostro entusiasmo. Siamo bravi ma non siamo gli unici. Ci riconoscono ormai le nostre capacità ma quel che ci distingue è che noi facciamo le cose perché ci diverte farle. Trasmettiamo entusiasmo al nostro cliente, al quale proponiamo le tecnologie che studiamo. Per le grandi aziende oggi è difficile inseguire il mercato di oggi, guardare il domani. Il nostro compito è proprio questo: proporre le nostre idee e studiare le tecnologie per trovarne di nuove.

Come avete fatto a sviluppare questo elemento distintivo?
Abbiamo portato l’approccio universitario, la cultura della ricerca all’interno dell’azienda. Kineton ha una divisione R&D molto ampia per le sue dimensioni: 20 persone dedicate a ricerca e sviluppo. Se la misuro in fatturato diretto, questa attività rende poco. Ma in termini di competenze, di cultura interna, di creatività ha un valore enorme. Senza dimenticare la nostra Academy interna e le collaborazioni che abbiamo con università e centri di ricerca esterni.

Quali sono i numeri della crescita di Kineton?
Da 10 persone a 250, da fatturato 0 a oltre 10milioni di euro a fine 2019. Finora abbiamo avuto un tasso di crescita annuo fra il 60 e il 70%, che è destinato a ridursi man mano che i numeri aumentano. Obiettivo 2020 è arrivare a oltre 350 persone con 18 milioni di fatturato. Siamo molto soddisfatti di questi risultati.

Non avete sentito quindi l’impatto del Covid?
No, nonostante una delle nostre principali industry di riferimento, l’automotive, sia in forte difficoltà. Perché noi lavoriamo con chi sta preparando il futuro. Assumiamo circa 15 persone al mese e abbiamo continuato a farlo anche durante il lockdown. Pensa che per questa ragione siamo stati ‘attenzionati’ dall’INPS, che sospettava qualcosa di irregolare. Abbiamo dovuto spiegare perché assumevano, dimostrando che il nostro business va più che bene.

Che cosa fa esattamente Kineton e chi sono i suoi clienti?
Kineton fa servizi di ingegneria e non è una software house. Progettiamo ingegneria informatica. Noi non programmiamo, noi inventiamo software. È una piccola ma sostanziale differenza che, da docente di informatica, considero importante. Kineton offre servizi complessi ed alto valore tecnologico. Per questo abbiamo solo grandi clienti, come FCA, Mediaset, Sky. In totale sono una quarantina, tantissimi se si tiene conto di quel che facciamo e che abbiamo solo tre anni di vita.

Come li avete convinti a venire a Napoli?
Non abbiamo inventato certo il teletrasporto. Nulla di eccezionale, apparentemente. Siamo entrati nel mercato in un momento in cui auto e media stanno vivendo una trasformazione epocale. Il nostro approccio differente ci ha fatto conoscere rapidamente. Eppoi ha funzionato l’effetto sorpresa: scoprire un’azienda che non ti aspetti, dove l’età media è molto bassa. Vuoi sapere com’è andata la prima volta?

Certo. Quando è accaduto e con chi?
Uno dei nostri primi appalti nel modo televisivo è stato un’avventura: nonostante avessimo solo un bilancio e 10mila euro di capitale sociale, abbiamo partecipato alla gara per la certificazione degli apparecchi tv. Il famoso bollino blu rilasciato da Tivusat. Ci invitano come outsider, gli altri concorrenti sono società del calibro di Mediaset. Senza alcun preavviso vengono a Napoli per fare l’audit, potendo così verificare dal vivo che quanto scritto nel bando rispondesse al vero. Vinciamo un contratto di tre anni e adesso siamo l’unico laboratorio in Italia, e uno dei tre in Europa, che certifica le tv sia per il software sia per l’hardware. Per noi è stato un bel trampolino di lancio. Tanto è vero che ormai nel mondo televisivo sediamo in tutti i tavoli più importanti.

Quale visione guida lo sviluppo di Kineton? In quali settori?
Vogliamo continuare a fare ingegneria in quello che sappiamo fare: progettazione software. Non vogliamo fare tutto. E vogliamo continuare a crescere investendo sul senso di appartenenza a Kineton. Siamo molto attenti nel coltivare la passione, nel curare le persone. E per questo abbiamo il nostro KPP, il Kineton People Program. Per esempio, io so che cosa significa essere un genitore, sono stato un socio Pampers. Così forniamo 6 mesi di pannolini a tutti i neonati dei nostri dipendenti. Ci piace pensare all’azienda non solo come luogo di lavoro. E poi crediamo molto nell’innovazione interna.

Come stimolate la creatività dei vostri ingegneri?
Per continuare a essere bravi dobbiamo investire nella conoscenza delle nuove tecnologie, sviluppare le competenze. I nostri dipendenti possono proporre, all’interno del programma Kineton Innovation Award, idee di prodotti o servizi. Chi vince, viene finanziato. Comunque non siamo mai fermi. Dalla proposta di un nostro collaboratore è nato il nostro primo videogioco, KHero, che ci ha dato le prime piccole revenue. Abbiamo appena lanciato una spin-off di intelligenza artificiale con l’Università di Salerno, Kebula. E poi c’è Kinecar…

Che cos’è Kinecar?
Un sogno a cui lavoriamo da due anni e mezzo, praticamente subito dopo la nascita di Kineton. Kinecar è la piattaforma che ci permette di coniugare le nostre principali competenze: auto e media. Kinecar non è solamente hardware, perché non è sola un’auto. Ma una piattaforma dove andiamo a testare tutte le nostre applicazioni. Per questo abbiamo registrato il marchio Internet of Cars, come elemento verticale dell’Internet of Things.

Internet of Cars? Che cosa significa?
Che l’auto sarà sempre di più un Device che permetterà, nel pieno rispetto della sicurezza, di giocare o vedere la tv mentre ci si muove. Questo è Kinecar e per questo stiamo lavorando su guida assistita, radar, telecamere, ma anche su tutta la parte di intrattenimento a bordo.

Vedremo le Kinecar in giro?
Certo, sarà una microcar, di quelle che si possono guidare da 16 anni in poi. Ma come non ce ne sono ancora. Per noi sarà un cambiamento epocale perché sarà il nostro laboratorio su quattro ruote, dove i grandi car maker potranno vedere quello che sappiamo fare e pretendere quello che serve per fare evolvere i loro modelli.

A che punto è il progetto Kinecar?
Il business parte a gennaio 2021, con la produzione a Napoli. Per la meccanica e l’hardware ci affideremo a dei partner. In estate cominceremo con la preserie per arrivare sul mercato entro la fine del 2021. Ma, ripeto, il nostro obiettivo è trovare partner, preferibilmente industriali, per realizzare il nostro sogno insieme e condividere i rischi che comporta.

Oltre auto e media, avete altre industry nel mirino?
Continuiamo a puntare su auto e media/tv, perché c’è tanto lavoro da fare dal punto di vista ingegneristico. Noi facciamo software e lì dove c’è una centralina possiamo dare un contributo. Ci stiamo, quindi, muovendo in altri mercati: il mondo aerospace, ad esempio, e più in generale i trasporti. E ci piacerebbe anche il cosiddetto Bianco, gli elettrodomestici. Crediamo sia un mercato dove cambieranno molte cose e nel quale potremmo portare le nostre competenze con buoni risultati.

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A Napoli, la prima fiera del design d’autore
Al via la prima edizione di EDIT Napoli. In mostra 60 designer e collaborazioni inedite tra creativi e artigiani campani. Al Complesso di San Domenico Maggiore dal 7 al 9 giugno


Autore: redazione living


https://living.corriere.it/tendenze/design/fiera-design-edit-napoli/

Perché Napoli? «Napoli ha una ricca storia di artigianato e di industria locale, una prestigiosa scena artistica contemporanea e una vivace comunità di collezionisti e istituzioni culturali progressiste. Una capitale mediterranea nel circuito culturale internazionale. Questa terra di “visionari indisciplinati”, che affronta la vita con passione e personalità, attrae un pubblico internazionale alla ricerca di qualcos’altro», scrivono Domitilla Dardi e Emilia Petruccelli nel manifesto di EDIT Napoli, fiera di design d’autore che debutta dal 7 al 9 giugno tra le mura del Complesso di San Domenico Maggiore, nel cuore della città partenopea.

Sono 60 gli espositori in mostra (talenti emergenti, autori indipendenti, designer, aziende e artigiani che coniugano ricerca espressiva a processi di produzione di alta qualità), selezionati dalle curatrici e ideatrici del progetto con l’obiettivo di esplorare il processo creativo a 360 gradi – dal concept alla produzione, dal branding alla distribuzione – e di stimolare collaborazioni inedite tra produttori e creativi. Come, ad esempio, i sodalizi creativi tra Gum Design con Alfaterna Marmi, Daniele Della Porta con B Beds 1967, BCXSY con Laboratorio Morseletto, ed Elisa Ossino con Nesite. In mostra anche una serie di opere realizzate in esclusiva per EDIT Napoli da Massimiliano Adami, Andrea Anastasio, Antonio Aricò, Simone Crestani, Flatwig Studio, Constance Guisset, Allegra Hicks, Kanz Architetti, La Fucina di Efesto, Max Lipsey, Atelier Macramé, Subalterno1, Dirk Vander Kooij, Nika Zupanc, solo per citarne alcuni, oltre alle aziende italiane Ghidini1961, De Castelli e Bitossi Ceramiche.

Ma EDIT Napoli sarà anche la vetrina per il programma di Design in Residence attivato nell’autunno 2018 per consolidare il legame con il territorio e il suo ricco patrimonio culturale. Protagonisti il designer venezuelano Reinaldo Sanguino che ha prodotto una serie di vasi con Ceramiche Fes, il designer libanese Khaled El Mays che ha realizzato una collezione di sgabelli in metallo, vetro e cuoio insieme agli artigiani dei Quartieri Spagnoli e il duo creativo italiano Faberhama che ha collaborato con Negri & Za.Ma a una linea di tessuti decorati in seta. Le collezioni realizzate insieme alle maestranze locali campane verranno presentate e commercializzate a livello internazionale sotto l’etichetta Made in EDIT. Si aggiunge al progetto, la collaborazione con PPPattern che ha visto l’artista napoletana Resli Tale creare un tavolo da ping pong per il cortile del Complesso. Inoltre Pamono, piattaforma e-shopping nel design vintage e d’autore, presenta Indie Rock: The New New Wave, una mostra ispirata al movimento radicale Memphis che celebra lo spirito indipendente di una selezione di designer-maker tra cui Antonio Aricò, Yasmine Bawa, Bloc Studios, Serena Confalonieri, Eligo, JCP, Portego, Purho, Secolo, Elisa Strozyk e Wall&Decò.

A completare il programma culturale dell’evento, gli EDIT Talks, due tavole rotonde a cura del critico e curatore Marco Petroni: ispirate ai rituali del caffè e della cucina partenopea, saranno l’occasione per ampliare il discorso dal food al design in compagnia di Vittorio Venezia, Martina Muzi e Simone Rebaudengo. Sempre in tema di cucina, Nerina Di Nunzio cura invece EDIT Table by Food Confidential, una piattaforma che promuove l’incontro tra professionisti del mondo della ristorazione e dell’hôtellerie con designer, artigiani e aziende. La commissione di esperti composta da Giulio Cappellini (Cappellini), David Alhadeff (The Future Perfect), Esra Lemmens (The Esra Lemmens Agency), Alessandro Valenti (ELLE Decor Italia) e Francesco Tuccillo (imprenditore locale) ha inoltre assegnato un premio al miglior inedito scelto tra tre prodotti finalisti: si tratta mobile bar della collezione BICOLORE disegnata da BCXSY per Laboratorio Morseletto “per la fruttuosa collaborazione tra uno studio di design internazionale e una manifattura italiana che da cento anni lavora con intelligenza e cura sartoriale il marmo”.
quando: 7-9 giugno 2019
dove: Complesso di San Domenico Maggiore, Vico San Domenico Maggiore 18, Napoli

Nuovi protocolli progettuali. Transizioni tra design e scienza

autore: Carla Langella

 

Nell’ultimo decennio il settore del design ha dimostrato un interesse sempre maggiore verso la possibilità di implementare la ricerca scientifica nei propri prodotti, asservendosi di strumenti e metodi basati sull’integrazione multidisciplinare, nonchè su criteri caratterizzati da un rigore di matrice sempre più scientifica. Il design contemporaneo mira a promuovere processi di innovazione e sperimentazione, in cui design e scienza si avvicinano, si intersecano e si fertilizzano.

Il design incontra la matematica nelle sperimentazioni in cui le tecnologie digitali vengono interpretate come forme espressive, dove l’intervento progettuale coinvolge la dimensione degli algoritmi attraverso percorsi che vengono definiti algorithmic designgenerative designcomputational design sempre più connessi al digital manufacturing. Esempi di algorithmic design sono, ad esempio, i gioielli e gli accessori per la casa realizzati da Nervous System, che interpretano il “computational”, come strumento creativo in grado di aiutare a realizzare le elaborazioni dei designer, riducendo enormemente i tempi che interconnettono il concept alla realizzazione.

La codifica e la costruzione dell’algoritmo diventano atti creativi, come il disegnare, con risultati che, in termini di qualità del design, dipendono ovviamente dalle capacità progettuali del designer, più che da ogni altro elemento materico o digitale. Nel sito di Nervous System, nella sezione di e-commerce, viene offerta anche la possibilità di personalizzare alcuni gioielli proposti attraverso uno strumento di digital customization in cui l’utente può modificare alcuni parametri dimensionali del gioiello, per poi acquistare e ricevere il prodotto co-progettato e realizzato con sistemi efficienti come quelli di rapid prototyping. Osservando i loro prodotti si deduce anche l’intenzione di usare le tecnologie digitali per tradurre più agevolmente in design la complessità di fenomeni, processi e patterns naturali, come quelli che caratterizzano la crescita delle strutture naturali.

 

Le collaborazioni tra design e biologia sono particolarmente frequenti, dalla bionica, al design biomimetico, che trasferisce ai prodotti strategie, strumenti e metodi tratti dalla biologia, fino a esperienze di elaborazione grafica di processi biologici.

Nel progetto di ricerca e formazione Design4Science, il design per la comunicazione interpreta il campo della Biologia Molecolare, facendo riferimento ad una gran varietà di risorse come l’archivio di dati e ricerche dell’MRC Laboratory of Molecular Biology di Cambridge; il Geis Archives dell’Howard Hughes Institute and David Goodsell, e lo Scripps Research Institute. In questo caso il design, più che trarre ispirazione dalle scienze biologiche supporta la scienza mediante lavori visivi, fotografie, animazioni, immagini digitali che svolgono il ruolo di disvelare concetti e processi in modo che gli scienziati stessi riescano a “leggerli” più semplicemente e da diversi punti di vista.

Il progetto Diatom Design nato dalla collaborazione tra l’Hybrid Design Lab [1] e il gruppo di ricerca, specializzato in microscopia elettronica e biologia marina, coordinato da Mario De Stefano, entrambi della Seconda Università degli Studi di Napoli, si propone di affrontare il tema del rapporto tra design e scienze biologiche mediante due diversi approcci: l’approccio della bioispirazione, che porta al design di prodotti innovativi e sostenibili che trasferiscono strategie progettuali innovative dalle Diatomee e l’approccio che prevede che il design svolga un ruolo di supporto alla biologia, mediante i suoi strumenti di modellizzazione e interpretazione di caratteri biologici, come le strutture e i pattern, per meglio comprendere le motivazioni e i fenomeni fisici e biologici che tali caratteri sotto-intendono.

Il rapporto del design con la chimica e con la scienza dei materiali e sicuramente quello, tra le scienze, più consolidato. Con l’evolvere delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie di produzione, però, tale relazione si apre a sempre più interessanti e complessi scenari collaborativi in cui l’interazione tra i due ambiti non è più casuale o saltuaria, ma più consapevole e costruttiva. Nascono nuove dimensioni metodologiche caratterizzate dall’obiettivo di individuare protocolli comuni di attività sulle quali fondare un processo di progettazione, interdisciplinare e condiviso, volto allo sviluppo di nuovi concept e nuovi prodotti di design, in un’ottica di innovazione sempre più compatibile con gli equilibri ambientali e con le esigenze del mercato.

 

Nell’ambito delle sperimentazioni progettuali condotte nell’Hybrid Design Lab il dialogo e la cooperazione tra design e nuovi materiali [2] è costante e si fonda sul definire e sperimentare nuovi linguaggi condivisi e modalità di interazione e condivisione tra designer, scienziati dei materiali e aziende orientate a implementare un’innovazione integrata design-materiali nelle loro produzioni.

A tale scopo è stata definita e sperimentata una metodologia “ibrida” e collaborativa fondata sull’integrazione delle competenze e orientata a favorire la nascita di fertilizzazioni incrociate e l’innescarsi di corto-circuiti creativi. Il design, impiegando i propri strumenti progettuali di prefigurazione di scenario e di lettura delle dinamiche evolutive ed esigenziali del mercato e della società, interpreta in forma di nuovi concept e nuovi prodotti i materiali messi a punto dai ricercatori di scienza dei materiali. Contemporaneamente, la scienza dei materiali, attraverso la collaborazione interdisciplinare, individua nuovi e inediti percorsi di applicazione per le proprie ricerche e propone stimoli e sollecitazioni alla ricerca di design, indicandole alcune delle direzioni più avanzate dello sviluppo della scienza e della tecnologia.

La metodologia definisce due modalità di approccio possibili: la prima muove dai materiali verso il design (Materiali → Design) e prevede che i chimici e gli scienziati dei materiali propongano al design innovazioni da tradurre in prodotti e applicazioni; mentre nella seconda il design richiede agli scienziati dei materiali le soluzioni materiche più appropriate a specifici brief progettuali (Design → Materiali). Per ognuno dei due approcci è stata definita e verificata una struttura procedurale suddivisa in fasi.

L’approccio M → D propone di “interpretare”, attraverso gli strumenti del design, le opportunità tecniche ed espressive offerte dall’innovazione dei materiali e delle tecnologie. Una interpretazione che si traduce in nuovi concept, prodotti e sistemi di prodotti e servizi, in grado di valorizzare le loro specifiche proprietà e identità. Per identità di un materiale si intende il complesso di opportunità, ma anche di limiti e debolezze, che lo caratterizzano e che devono essere elaborate per concepire nuove applicazioni nelle quali il materiale si “esprima” nella maniera più efficace possibile. I “caratteri di identità” contemplano aspetti ambientali; prestazioni tecniche come la durabilità, la processabilità, le proprietà meccaniche e quelle di barriera; caratteri percettivi come l’aspetto, la capacità di trasmettere e riflettere la luce, il colore e le proprietà tattili.

 

Le fasi più significative che caratterizzano questo approccio sono:

  1. Selezione del materiale: Il gruppo di ricerca di scienza dei materiali seleziona e propone un sistema materico sviluppato o in fase di sviluppo rispetto al quale ritiene possa essere utile individuare possibili nuovi ambiti di applicazione.
  2. Analisi conoscitiva: In questa fase i ricercatori del gruppo di design affiancano nelle attività di laboratorio i chimici e gli scienziati dei materiali per acquisire informazioni su fattori come il ciclo sperimentale, le fasi e i processi di realizzazione, i requisiti tecnici, ambientali e percettivi. La differenza di approccio e punti di vista che caratterizzano i due gruppi di ricercatori consente a entrambi di cogliere stimoli e individuare potenzialità che difficilmente avrebbero apprezzato a pieno lavorando singolarmente e secondo le metodiche consuete.
  3. Definizione dell’identità del materiale. I due gruppi lavorano congiuntamente per redigere una scheda che raccoglie i caratteri di identità del nuovo materiale, secondo le categorie: caratteri tecnico-funzionali, caratteri estetici, caratteri tecnologici e di processo, caratteri ambientali, e caratteri percettivi.
  4. Individuazione delle aree di opportunità e dei limiti da interpretare attraverso nuovi concept.
  5. Prefigurazione di possibili scenari applicativi e di nuovi modelli di consumo in funzione delle tendenze evolutive del mercato e della società.
  6. Proposta di nuovi concept che interpretano, esprimono e valorizzano l’identità del nuovo materiale.
  7. Sviluppo delle proposte progettuali.
  8. Selezione della proposta progettuale più adeguata e rispondente alle esigenze da soddisfare.
  9. Sviluppo del progetto, studio di fattibilità, prototipazione e eventuale brevetto.

 

Nel secondo approccio (D→M) il design, utilizzando i nuovi strumenti metodologici e linguistici di cooperazione messi a punto nel corso delle collaborazioni multidisciplinari, sperimenta la possibilità di trasferire e tradurre in requisiti da proporre agli scienziati dei materiali nuovi concept di design aderente ai nuovi scenari esigenziali contemporanei.

In questo secondo approccio la metodologia si sviluppa secondo le seguenti fasi:

  1. Redazione di un brief elaborato dal gruppo di design o da un’azienda, in funzione di un nuovo scenario esigenziale individuato e non soddisfatto sufficientemente da nessun prodotto esistente.
  2. Definizione e analisi delle problematiche progettuali connesse alle esigenze individuate nel brief.
  3. Analisi delle soluzioni analoghe esistenti sul mercato, nella quale vengono messi in luce limiti e vantaggi.
  4. Prefigurazione di possibili scenari di prodotto attraverso i quali proporre nuove soluzioni alle problematiche irrisolte e nuovi modelli di consumo.
  5. Definizione di un concept che proponga soluzioni innovative alle problematiche progettuali definite.
  6. Traduzione del concept e dei principi progettuali definiti in un brief di materiali richiesti dal progetto.

 

  1. Individuazione delle possibili soluzioni di materiali che possono essere esistenti; esistenti ma in parte da modificare; o da mettere a punto ex novo.
  2. Sviluppo di un sistema integrato design-scienza di definizione dei nuovi sistemi materici aderenti alle esigenze espresse. In questa fase è importante che i ricercatori di design e di scienza dei materiali collaborino nella elaborazione di soluzioni condivise che costituiscano uno stato di avanzamento per le loro attività di ricerca in corso, ma che siano anche fattibili e realizzabili con tecnologie produttive esistenti e accessibili, anche da un punto di vista economico.
  3. Sviluppo delle proposte progettuali condivise che coinvolgono sinergicamente materiali e prodotto.
  4. Selezione della proposta progettuale più adeguata e rispondente alle esigenze da soddisfare.
  5. Sviluppo del progetto, studio di fattibilità, prototipazione e eventuale brevetto.

L’intersezione del design con matematica, biologia, fisica, scienza dei materiali, chimica può, quindi, proporre nuovi e inediti scenari di collaborazione in cui i ruoli si invertono, si fondono e si rinnovano di continuo, allo scopo comune di guadagnare avanzamenti nei diversi ambiti, in modo sinergico e proattivo.

La collaborazione multidisciplinare si fonda sulla volontà di promuovere la confluenza di alcune delle più significative attività di ricerca condotte parallelamente da design e scienze in comuni risultati concettuali e progettuali che si traducano, alla fine del percorso di ricerca, in prodotti industrializzabili, tecnicamente fattibili che determinino un impatto degli avanzamenti della ricerca scientifica nella vita delle persone.

Saperi e specificità disciplinari differenti collaborano tra loro per poter approdare a esiti, concettuali o concreti, accomunati da un approccio volto all’innovazione e alla traduzione della ricerca in prodotti. Design e scienze si avvicinano esplorando tale relazione attraverso molteplici prospettive. I sistemi di ricerca generati sono molteplici e multiformi, ma si fondano sulla scelta di adottare paradigmi e metodologie di matrice tecno-scientifica in grado di gestire la complessità dello scenario della produzione industriale contemporanea e le sue relazioni con gli aspetti culturali come la storia produttiva di un contesto, il capitale umano e quello territoriale.

Graphical abstract: la visualizzazione della scienza

Autore: Carla Langella

L’attenzione verso il modo di agire del design, inteso come attitudine progettuale alla soluzione di problemi complessi e all’innovazione, che hanno dimostrato gli ambiti economici e del marketing attraverso il design thinking, sta iniziando a comparire anche negli ambienti scientifici. Il design può fornire alla scienza un supporto nella comunicazione, ma anche indicazioni su come occupare nuovi spazi di azione, proporre nuove tematiche che rispondano alle esigenze della società e del mercato o stimolare la “capacità creativa” della scienza con punti di vista e approcci di matrice progettuale.

Nei contesti del design, la relazione con le scienze in ambito bio apre nuove ed inedite prospettive di intervento . Esse sono in grado di generare inconsueti profili professionali come il Graphical Abstract Designer, colui che produce video multimediali e animazioni digitali per rappresentare processi scientifici, traducendo i dati in forme divulgative come presentazioni, illustrazioni, info-grafiche, app e exhibit. Lo scopo è quello di rendere questi dati comprensibili ai professionisti che li utilizzano, come medici e biologi o, più in generale, alla società. La visualizzazione di principi scientifici è diventata, anche, un’efficace strumento di marketing per rappresentare il contenuto di ricerca di prodotti come farmaci, biomedicali, cosmetici e accessori tecnici sportivi. La visualizzazione scientifica attraverso il design può essere utilizzata dai media per informare l’opinione pubblica su specifici percorsi della scienza e su politiche di sviluppo. In questo caso le ricadute etico-sociali sono complesse e rilevanti.

 

La tendenza delle riviste scientifiche di richiedere, al momento della sottomissione di un articolo, un graphical abstract, cioè una rappresentazione grafica che sintetizzi, come una sorta di mappa concettuale, gli elementi salienti dell’articolo stesso porta gli scienziati ad avere una nuova impellente esigenza che non sempre riescono ad assolvere autonomamente. Almeno non in tempi rapidi e spesso non con risultati adeguati al valore del lavoro scientifico in termini di qualità grafica ed efficacia comunicativa. Per questo motivo stanno nascendo piattaforme come Mind the Graph fondata dallo scienziato Fabricio Pamplona, in collaborazione con uno studio di grafica, per progettare graphical abstracts, immagini per pubblicazioni, presentazioni e altre forme di comunicazione della scienza. Si tratta di una piattaforma online che aiuta gli scienziati a costruire immagini con format, icone e logiche pre-disegnate. Il problema posto da iniziative come questa, consiste però nel fatto che la cultura progettuale grafica viene perlopiù ridotta a un automatismo, con template e immagini predefinite. E la qualità del risultato finale ne paga le conseguenze.

D’altra parte la nascita di soggetti come Mind the Graph testimonia il formarsi di un’esigenza, fino a poco tempo fa inedita, che richiede nuovi strumenti concettuali, interpretativi e professionali. Soltanto i designer capaci di aderire a un approccio ibrido, di immergersi in ogni tematica scientifica e di interpretarla rafforzandola e facendo in modo che la loro visione arricchisca quella degli scienziati, senza rischiare di deviarla o snaturarla, potranno cogliere questa nuova sfida nella sua piena potenzialità. Una sfida che richiede capacità di ascolto e attitudine deduttiva per cogliere, in tempi brevi, i concetti salienti e prioritari da comunicare, pur non avendo gli strumenti disciplinari per dominare pienamente le conoscenze scientifiche coinvolte. È necessario che i tempi dei designer siano adeguati alle esigenze degli scienziati di pubblicare i loro risultati prima possibile, prima che altri gruppi di ricerca riescano a pervenire a risultati analoghi.

È proprio nella capacità di selezionare i contenuti da esplicitare per fare emergere in modo istantaneo il contributo proposto dal lavoro scientifico al settore di riferimento che risiede l’efficacia del designer visualizzatore della scienza. Descrivere graficamente e sinteticamente un processo conoscendone a fondo tutti i dettagli e tutte le implicazioni come farebbe uno scienziato è molto difficile, il risultato più frequente sono immagini complicate, in cui i diversi livelli logici si confondono perdendo la loro struttura gerarchica. I designer devono imparare a strutturare gerarchie di concetti e a fare emergere nella sua rappresentazione tali strutture con gli strumenti espressivi e le strategie percettivo-cognitive più idonee di volta in volta.

 

Nell’introduzione del testo “Science Communication in Theory and Practice”1, gli autori sottolineano la funzione strategica della comunicazione della scienza per un pubblico più ampio possibile. Nell’articolo vengono citati cinque valori a cui fare riferimento nel valutare l’impatto della comunicazione scientifica: economico, utilitario, democratico, culturale e sociale. Tali valori vanno modulati nel correlare i risultati ottenuti dalla scienza ai cittadini e per assicurare la partecipazione degli scienziati alla vita pubblica. Designer e artisti, per la loro attitudine a comunicare valori, concetti e principi sono in grado di illustrare i caratteri della scienza a segmenti di utenza sia ampi e generalisti che molto specifici. Nell’ambito delle scienze della vita il design propone racconti visivi e sistemi di informazioni in diverse modalità dall’info-grafica, alle animazioni 3D, ai video, alle illustrazioni che possono rivelarsi sia esplicative ed educative che coinvolgenti e inclusive. Se l’obiettivo dello scienziato è pervenire a risultati più efficaci possibili in tempi più brevi possibili, anche trascurando la qualità grafica e comunicativa dei loro strumenti rappresentativi, i progettisti possono coadiuvarli nel rendere tali risultati più comprensibili.

Secondo Luc Pauwels in “Visual Cultures of Science”2 il ruolo del design è più propositivo e ampio della mera funzione di restituzione dei risultati della ricerca, poiché l’intervento del design nel visualizzare i dati e i concetti scientifici da punti di vista differenti stimola gli scienziati a reinterpretare in maniera diversa le loro stesse conoscenze consentendogli di percepire ed intuire aspetti che possono apportare rinnovamenti e cambi di direzione proficui. I designer, dunque, possono contribuire alla conoscenza scientifica attraverso un approccio interpretativo e facilitatore che – costruendo percorsi narrativi fondati sull’uso progettato di informazioni e immagini – coadiuvi gli scienziati nel catalogare, analizzare, interpretare, condividere e rinnovare i dati delle loro ricerche, anche mostrando loro qualcosa di nuovo che favorisca scoperte e intuizioni.

 

Nell’articolo “Making Visible the Invisible” pubblicato sulla rivista Eye Stuart McKee si chiede: «Can designers and scientists teach each other how to express new concepts in text and image?». Nel rispondere al quesito McKee descrive diverse intersezioni tra scienziati e designer o tra designer e artisti. Tra i più noti Felice Frankel scienziata, fotografa e designer conosciuta per il suo lavoro sulla visualizzazione del lievito. Una collaborazione con due scienziati dell’MIT, che è stata molto controversa perché per rendere l’immagine scientifica esteticamente più “pulita”, aveva cancellato il disco di Petri, il contenitore trasparente usato dai biologi per le colture. In questo modo veniva eluso il supporto tecnico, dunque un elemento importante per la comprensibilità e riproducibilità dell’esperimento, aspetti fondamentali nelle pubblicazioni scientifiche. Questo episodio mette in luce una questione di rilievo nella visualizzazione della scienza: l’obbligo dei designer di approcciare ai dati e ai protocolli scientifici in modo rigoroso senza compromettere, con le loro interpretazioni, il valore scientifico delle informazioni trasferite e le convenzioni riconosciute nella comunità scientifica di riferimento. Questione che rischia di contrastare con l’esigenza dei progettisti di sviluppare linguaggi e modelli espressivi alternativi e inconsueti per l’ambito scientifico.

Nell’articolo “On-Screen Storytelling in the Visualization of Biotechnology”3 Heather Corcoran sottolinea che uno dei principali problemi della collaborazione tra designer e scienziati sta nel fatto che le conoscenze scientifiche rimangono prevalentemente patrimonio dello scienziato che difficilmente è disposto a condividerle con il designer che ha il compito di rappresentarle e comunicarle, o a impiegare ulteriore impegno nel rendergliele comprensibili. Questa resistenza minaccia la potenza comunicativa del designer. Ma gli obiettivi della visualizzazione sono molteplici, se non è orientata alla comunità scientifica può invece rivelarsi risolutiva per raggiungere un pubblico diverso, come ad esempio potenziali finanziatori che mediante l’intermediazione rappresentativa arrivano a comprenderne più facilmente il potenziale di innovazione del lavoro scientifico illustrato.

 

Un’altra importante area di visualizzazione delle bio-scienze, di grande efficacia nell’avvicinare la ricerca scientifica più avanzata e di frontiera alla società, anche attraverso strumenti come la rete e i social media, è quella dell’animazione digitale. Nel 2006, la Harvard University ha costruito una partnership con XVIVO per sviluppare un’animazione con l’obiettivo di consentire ai suoi studenti di biologia cellulare di effettuare una sorta di viaggio virtuale all’interno del microscopico mondo della cellula. È nato così un video “cult” per la visualizzazione delle scienza, The Inner Life of the Cell, che segue il movimento di una cellula di globulo bianco all’interno dell’endotelio mostrando le sue risposte agli stimoli esterni.

Da allora XVIVO ha creato altre meravigliose animazioni che sono raccolte nella serie Harvard’s BioVisions. Tra queste Powering the Cell: Mitochondria, che segue i meccanismi della produzione dell’ATP all’interno della membrana dei mitocondri e The Inner Life of the Cell: Protein Packing, che presenta l’affollato ambiente interno ad una cellula. Queste animazioni sono disponibili in rete nel sito di BioVisions, struttura dedicata allo sviluppo di video scientifici, fondata da Robert A. Lue e supportata dalla Howard Hughes Medical Institute e dalla Harvard University. Ma una visualizzazione nuova ed efficace può anche contribuire allo sviluppo delle scienze facilitando la nascita di nuove intuizioni e deduzioni. La capacità di osservare e registrare i dati scientifici in modo originale e fondato su una tridimensionalità e un dinamismo, che spesso gli scienziati non sono in grado di rappresentare, costituisce un’importante opportunità per l’evoluzione di tutte le scienze.

Un’altra azienda specializzata in visualizzazione della scienza è Visual Science che propone i suoi servizi a settori come la biomedicina, i prodotti farmaceutici, le nanotecnologie, i prodotti chimici e la microelettronica. Oltre alle competenze scientifiche l’azienda comprende competenze di design, imaging, produzione cinematografica, game design e marketing per offrire soluzioni che illustrino in modo innovativo ed efficace progetti, prodotti e servizi sia ad un pubblico specializzato che eterogeneo. Oltre al team interno l’azienda si avvale anche di più di 70 consulenti scienziati di diversi settori, provenienti da illustri università e centri di ricerca internazionale, per assicurare un adeguata trattazione dei contenuti scientifici specialistici.

I principali ambiti di intervento di Visual Science sono: la modellazione scientificamente accurata di prodotti, processi e tecnologie in 3D, l’animazione digitale, l’illustrazione, la realtà aumentata e la realtà virtuale. Tra i principali clienti rientrano centri di ricerca, università e aziende a cui vengono proposte soluzioni per la comunicazione scientifica, per il marketing e per la didattica. È interessante visitare la galleria dei progetti sviluppati da Visual Science4 per osservare come i codici espressivi e i linguaggi visivi varino secondo l’ambito di applicazione (scienza, tecnologia, medicina, ecc.) e in funzione della declinazione comunicativa (animazione, infografica, poster, modello 3D, cover di rivista scientifica ecc.).

 

La relazione tra designer e scienziati, come afferma Paola Antonelli nella prefazione del catalogo della mostra Design and Elastic Mind, deve essere biunivoca, deve fondarsi su scambi e dialoghi attivi in entrambe le direzioni che apportino vantaggi a tutti. Susan Greenfield, scienziata e scrittrice britannica, specializzata in fisiologia del cervello, sostiene che gli scienziati debbano affidarsi alla creatività per poter interpretare i bisogni della società e per poter lavorare nella direzione più propensa alla loro soddisfazione. Nello stesso tempo grafici e artisti devono essere consapevoli delle nuove conquiste delle scienze neurofisiologiche che descrivono i processi su cui la stessa creatività si fonda per gestire in modo più consapevole e proficuo il loro lavoro.

Nel testo The Quest for identity in the 21st century5 la Greenfield affronta una tematica di neurofisiologia di grande interesse per i designer: la plasticità del cervello. Il cervello è un organo molto plastico e dinamico soggetto a costanti cambiamenti strutturali e fisiologici correlati al mutamento degli stili di vita, degli strumenti di lavoro e dei contesti di azione, che influiscono sul modo di percepire e comprendere le informazioni. Un esempio molto efficace dell’influenza della plasticità cerebrale è quello delle modifiche fisiologiche osservate nel cervello dei giovanissimi dovute all’eccessivo uso di dispositivi “screen-based” a causa della retroilluminazione e della velocità con cui si susseguono le immagini che riducono la capacità di concentrazione e di attenzione.

Il testo della Greenfield è molto utile anche per i designer e gli artisti poiché descrive il processo creativo in termini di fenomeni e connessioni neuronali che viene schematizzato in tre fasi: decostruzione, costruzione di nuove associazioni, attribuzione di nuovi significati alle nuove associazioni mediante connessioni. Trattazioni come questa possono risultare molto preziose per i creativi che si approcciano alla visualizzazione della scienza poiché consentono di comprendere i fenomeni neurologici che sono alla base dell’assimilazione di concetti complessi e di aiutare a massimizzare l’efficacia comunicativa dell’attività del designer per la scienza. Il design, dunque, coadiuva la scienza e allo stesso tempo la scienza aiuta il design ad acquisire consapevolezza delle logiche su cui si fonda il suo stesso lavoro per poterlo migliorare, soprattutto quando l’ambito di azione è un ambito scientifico che richiede rigore e affidabilità. La relazione con la scienza può, dunque, essere facilitata proprio dalla scienza stessa.

Una delle modalità dell’arte digitale di avvicinare le persone ai processi e alle logiche della natura e alla consapevolezza del compenetrarsi tra i domini biologico e sintetico è la creazione di organismi ed ecosistemi digitali come avviene nel caso di Syntfarm, un collettivo nato dalla collaborazione di Andreas Schlegel e Vladimir Todorovic nel 2007 tra Germania e Singapore. Il collettivo esplora e preserva le espressioni e le strutture degli ecosistemi dinamici naturali traducendoli in ecosistemi digitali, che non si riducono a mappature o rappresentazioni grafiche degli organismi e degli ambienti naturali, poichè si comportano come estensioni di tali ecosistemi, dotate delle stesse regole e principi. Syntfarm lavora su quattro fronti: atmosfera, biosfera, litosfera e idrosfera. L’approccio è quello di sperimentare, esporre, e comprendere la vita sul pianeta, con le sue regole ed esigenze, con l’intento di proporre una sorta di enciclopedia on-line della natura che si aggiorna dinamicamente. Il progetto si suddivide in tre fasi caratterizzate da attività differenti. NOAnetwork of actions è un sistema ciclico di raccolta dati che mette in relazione diversi siti e diversi ecosistemi con lo scopo di creare connessioni e sinergie tra luoghi distanti. I dati vengono raccolti in un luogo per poi venire restituiti e esposti in un sito diverso.

Nello stesso posto in cui avviene l’esposizione parte un nuovo set di raccolta dati e, in questo modo, il ciclo può continuare all’infinito. NODAAautonomous data objects consiste, invece, in oggetti fisici che archiviano nel tempo eventi e fatti già avvenuti in uno specifico luogo, allo scopo di mantenere le tracce dei fenomeni che hanno caratterizzato nel tempo quello stesso sito. I dati archiviati sono dati scientifici e oggettivi legati alla vita dei luoghi, come ad esempio la qualità dell’aria, la temperatura, l’umidità, la pressione. Nella sezione SEsynthetic ecosystem tutti i set di dati acquisiti dai NOA e NODAA sono conservati in forma di organismi e ambienti digitali, in moduli definiti farm, come se si trattasse di organismi in coltura in un ecosistema digitale. Tutte le farm, imitando i processi e i sistemi che sono stati osservati in uno spazio fisico e che hanno un comportamento dinamico nel loro ambiente dedicato, evolvendo simulano potenziali comportamenti di ecosistemi futuri.

 

I casi illustrati sono solo alcuni esempi che rivelano linguaggi e codici espressivi diversi, media e strumenti diversi che, nel panorama internazionale, contribuiscono a definire questo variegato e multiforme universo che prefigura nuovi sbocchi professionale per artisti e designer ibridi, curiosi, rigorosi e orientati a contribuire con il loro lavoro all’evoluzione della scienza.

Hyle. Dialoghi transdisciplinari sul design

Autore: Carla Langella

 

l 10 Novembre 2017 è stata inaugurata al Riot Studio, a Napoli, una mostra preziosa e illuminante che prospetta una dimensione del design italiano inconsueta, legata ad una cultura mediterranea in cui arte, design, poesia e artigianato dialogano intensamente fino a fondersi e a confondersi in 10 progetti e visioni che presentano caratteri e frammenti identitari della città di Napoli.

La mostra è stata curata da Francesco Dell’Aglio, Enza Migliore Chiara Scarpitti in collaborazione con Riot Studio. I lavori di Ivo Caruso, Diego Cibelli, Chiara Corvino, Francesco Dell’Aglio, Daniele della Porta, Enza Migliore, Francesco Pace, Giulia Scalera, Salvatore Scandurra e Chiara Scarpitti affondano le loro radici nel territorio napoletano ma non si propongono come progetti locali, piuttosto come interpretazioni aperte, rivolte all’esterno e al dubbio, dunque dialogiche.

Gli autori vivono tutti a Napoli o tra Napoli e altre città, e sono accomunati da un approccio transdisciplinare al progetto, in cui confluiscono diversi aspetti della cultura del progetto, e da una una costante tensione, a volte persino conflittuale, tra arte e design. Ogni autore è stato invitato a proporre un modello di dialogo, inteso come sistema composto da domande impossibili e non-risposte.

 

Attraverso la chiave interpretativa del dialogo, inteso come strumento speculativo e comunicativo, ogni progetto propone un diverso modo di sentire nel profondo una città complessa e contraddittoria come Napoli. I modelli dialogici sono diventati così dei “manifesti”, espressioni di pensieri coagulati ma anche di intuizioni eteree, scritti a mano dagli autori attraverso delle serigrafie.

Le opere esposte come “concretizzazione” dei manifesti dialogici si propongono come contenitori epistemologici, dispositivi in forma di vasi, cassetti, scatole, sculture che traducono pensieri altrimenti astratti. Nel catalogo della mostra si legge, infatti: «Le forme cave, nel loro essere vuote, sono riempite di un senso, come di un liquido dialogico, che è il messaggio, l’idea che il designer/artista vuole offrire al pubblico».

Attraverso hyle si intravede il ricco bacino della creatività contemporanea partenopea in cui confluiscono fermenti, ricerche e tensioni di forme espressive dense e composite, tese tra l’antico passato e il futuro della città, intrise di pathos e mistero. hyle parte da Napoli ma si propone come esposizione itinerante rivolta soprattutto alla dimensione internazionale alla quale intende mostrare un frammento di un più ampio paesaggio.

Anche la struttura del catalogo edito da “Il Laboratorio” è inconsueta: una scatola nera che contiene oltre al catalogo stesso i preziosi manifesti serigrafici in bianco e nero. L’introduzione si propone come un dialogo tra i curatori attraverso il quale si intrecciano i fili concettuali con cui è stato intessuto il processo di generazione dell’esposizione.

 

Sull’identità creativa della città, Chiara Scarpitti scrive che Napoli è «una città estremamente contemporanea dal punto di vista artistico: terreno fertile per la produzione di un pensiero autentico svincolato da modelli precostituiti e vigenti. L’essere distanti dalle possibilità luccicanti che la grande industria è in grado di offrire oggi ai designer, se da un lato, infatti, nega ai creativi del luogo un perfetto inserimento in un tessuto produttivo stabile, dall’altro li svincola da un obbligo di mercificazione fine a sé stessa e li rende liberi. Ma è una libertà di sperimentazione molto vicina a una ricerca personale, che spesso rispecchia quella che è la percezione complessa del luogo, nei suoi contrasti amari e insanabili, e nella sua originaria inclinazione, propriamente filosofica».

Spiegando l’origine del nome della mostra, la stessa Scarpitti ne esplicita ulteriormente gli intenti: «hyle, in greco, significa letteralmente legname, materiale per costruzione, materia non ancora formata e in senso filosofico indica la sostanza, il principio fisico e mentale di cui sono fatte le cose. Cose a loro volta intese come contenitori di un significato; nella visione flusseriana, “vasi”, forme pure e vuote poiché strumenti epistemologici che riguardano la teoria della conoscenza (Flusser V., 2003)».

Per Francesco dell’Aglio Napoli è «una città in cui paganesimo, metafisica, cosmologia, superstizione, coesistono in un compatto blocco di energie stratificate nel tempo e ricoperte da una patina di storia, cenere e acqua salmastra che cela e al contempo le protegge con un guscio ruvido e poroso ma non avulso dall’attacco superficiale esterno».

 

Enza Migliore invece, propone una lettura dell’esperienza compiuta attraverso una metafora biologica «hyle è un embrione formatosi nel ventre di Napoli a partire da una scelta d’amore (di noi autori, designer, artisti) e cresce nutrendosi delle nostre energie creative, produttive, intellettuali. L’amore è per Napoli, per la nostra terra. Ma questo amore è talvolta univoco, ostico, difficile da coltivare. Ecco perché hyle».

Difficile descrivere i progetti singolarmente, perché costituiscono una sostanza continua seppur disomogenea, il risultato di una volontà collettiva esplicitata attraverso diverse forme espressive e materiche. I manifesti sono una componente fondamentale per comprendere i progetti e gli artefatti.

Nel progetto Digestorium di Francesco Dell’Aglio, concretizzato in contenitori in vetro soffiato, viene evocata la matrice alchemica in cui la città di Napoli è immersa attraverso una analogia tra processo alchemico e processo creativo. Doppio fondo, di Francesco Pace, fa riferimento alla camera magmatica del Vesuvio, di cui la scienza contemporanea ancora non conosce nel dettaglio la morfologia e le dimensioni. Pace propone una delle morfologie possibili come se si trattasse di un modello in scala in terracotta e colombino, che diviene un calorifero-umidificatore ispirato alla figura mitologica di Tifeo, mostro sconfitto da Zeus che risiedeva nel sottosuolo di Napoli.

Nell’installazione Giardino di Chiara Corvino realizzata in porcellana, marmo e fiori secchi si mescolano antichi mestieri, emblemi materici e paesaggi interiori. Nel progetto Lacrima, di Chiara Scarpitti, viene mostrato un processo in cui tre lacrime, come contenitori simbolici di espressione, sono state raccolte in un contenitore sterile e inviate ad Amsterdam al fotografo scienziato Maurice Mikkers (Imaginarium of Tears) che le ha fotografate. Le immagini ottenute sono state poi elaborate, impresse su seta mediante stampa digitale e inglobate in gioielli realizzati con argento rodiato nero, acciaio nero tagliato chimicamente e plexiglass.